Cari fedeli...Buon Anno!
Alla conquista della pace
Anche il 2016 inizia all’insegna di un grande desiderio e un immenso bisogno di pace. Il Papa nel suo messaggio,qui sotto ne trascrivo il testo completo, fa appello a tutti, soprattutto ai responsabili della educazione, perché abbiano a perseguire ad ogni costo la pace. Nel presentare questo messaggio all’interno delle nostre comunità e nei diversi ambienti di vita, teniamo presenti alcuni spunti concreti.
Il primo è l’invito a vincere l’indifferenza. L’indifferenza nei confronti delle piaghe del nostro tempo come segnalavo nel presepe in chiesa madre, è una delle cause principali della mancanza di pace nel mondo. L’indifferenza oggi è spesso legata a diverse forme di individualismo che producono isolamento, ignoranza, egoismo e, dunque, disimpegno.
Il secondo spunto riguarda la necessaria apertura delle coscienze in senso solidale, per cui è indispensabile il contributo che possono dare, oltre alle famiglie, gli insegnanti, tutti i formatori, gli operatori culturali e dei media, gli intellettuali e gli artisti. Non basta l’informazione, essa deve suscitare l’impegno.
Il terzo spunto dice che la pace va conquistata: non è un bene che si ottiene senza sforzi, senza conversione, senza creatività e confronto. Certo, è un dono da parte di Dio, ma questo dono va riconosciuto e coltivato. Si tratta di sensibilizzare e formare al senso di responsabilità riguardo a gravissime questioni che affliggono la famiglia umana, quali il fondamentalismo e i suoi massacri, le persecuzioni a causa della fede e dell’etnia, le violazioni della libertà e dei diritti dei popoli, lo sfruttamento e la schiavizzazione delle persone, la corruzione e il crimine organizzato, le guerre e il dramma dei rifugiati e dei migranti forzati.
Il quarto spunto indica delle strade da percorrere, singolarmente e tutti insieme, come forme di reazione costruttiva: la cultura della legalità, la disponibilità al dialogo e l’esigenza della cooperazione. Non siamo ancora sufficientemente formati a questi capisaldi della convivenza civile. Il mondo non è ancora evoluto finché non si organizza attorno a questi capisaldi.
La pace, infine, è possibile lì dove il diritto di ogni essere umano è riconosciuto e rispettato, secondo libertà e secondo giustizia.
Il Messaggio del 2016 vuole essere uno strumento dal quale partire perché tutti gli uomini di buona volontà, in particolare coloro i quali operano nell’istruzione, nella cultura e nei media, agiscano ciascuno secondo le proprie possibilità e le proprie migliori aspirazioni per costruire insieme un mondo più consapevole e misericordioso, e quindi più libero e giusto. Il Giubileo della misericordia invita ad assumere atteggiamenti di comprensione da una parte ma anche di partecipazione dall’altra. La misericordia negli elenchi classici viene descritta come atto e non come sentimento.
Dio non è indifferente. A Dio importa dell’umanità, non l’abbandona! Per questo si è fatto uomo! Don Giuseppe
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
XLIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2016
Vinci l’indifferenza e conquista la pace
1. Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona! All’inizio del nuovo anno, vorrei accompagnare con questo mio profondo convincimento gli auguri di abbondanti benedizioni e di pace, nel segno della speranza, per il futuro di ogni uomo e ogni donna, di ogni famiglia, popolo e nazione del mondo, come pure dei Capi di Stato e di Governo e dei Responsabili delle religioni. Non perdiamo, infatti, la speranza che il 2016 ci veda tutti fermamente e fiduciosamente impegnati, a diversi livelli, a realizzare la giustizia e operare per la pace. Sì, quest’ultima è dono di Dio e opera degli uomini. La pace è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono chiamati a realizzarlo.
Custodire le ragioni della speranza
2. Le guerre e le azioni terroristiche, con le loro tragiche conseguenze, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o religiosi, le prevaricazioni, hanno segnato dall’inizio alla fine lo scorso anno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”. Ma alcuni avvenimenti degli anni passati e dell’anno appena trascorso mi invitano, nella prospettiva del nuovo anno, a rinnovare l’esortazione a non perdere la speranza nella capacità dell’uomo, con la grazia di Dio, di superare il male e a non abbandonarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Gli avvenimenti a cui mi riferisco rappresentano la capacità dell’umanità di operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici, dell’apatia e dell’indifferenza rispetto alle situazioni critiche.
Tra questi vorrei ricordare lo sforzo fatto per favorire l’incontro dei leader mondiali, nell’ambito della COP 21, al fine di cercare nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici e salvaguardare il benessere della Terra, la nostra casa comune. E questo rinvia a due precedenti eventi di livello globale: il Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo sostenibile del mondo; e l’adozione, da parte delle Nazioni Unite,dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, finalizzata ad assicurare un’esistenza più dignitosa a tutti, soprattutto alle popolazioni povere del pianeta, entro quell’anno.
Il 2015 è stato un anno speciale per la Chiesa, anche perché ha segnato il 50° anniversario della pubblicazione di due documenti del Concilio Vaticano II che esprimono in maniera molto eloquente il senso di solidarietà della Chiesa con il mondo. Papa Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio, volle spalancare le finestre della Chiesa affinché tra essa e il mondo fosse più aperta la comunicazione. I due documenti, Nostra aetate e Gaudium et spes, sono espressioni emblematiche della nuova relazione di dialogo, solidarietà e accompagnamento che la Chiesa intendeva introdurre all’interno dell’umanità. Nella Dichiarazione Nostra aetate la Chiesa è stata chiamata ad aprirsi al dialogo con le espressioni religiose non cristiane. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, dal momento che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» [1], la Chiesa desiderava instaurare un dialogo con la famiglia umana circa i problemi del mondo, come segno di solidarietà e di rispettoso affetto [2].
In questa medesima prospettiva, con il Giubileo della Misericordia voglio invitare la Chiesa a pregare e lavorare perché ogni cristiano possa maturare un cuore umile e compassionevole, capace di annunciare e testimoniare la misericordia, di «perdonare e di donare», di aprirsi «a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica», senza cadere «nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge» [3].
Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla vita comune. La dignità e le relazioni interpersonali ci costituiscono in quanto esseri umani, voluti da Dio a sua immagine e somiglianza. Come creature dotate di inalienabile dignità noi esistiamo in relazione con i nostri fratelli e sorelle, nei confronti dei quali abbiamo una responsabilità e con i quali agiamo in solidarietà. Al di fuori di questa relazione, ci si troverebbe ad essere meno umani. E’ proprio per questo che l’indifferenza costituisce una minaccia per la famiglia umana. Mentre ci incamminiamo verso un nuovo anno, vorrei invitare tutti a riconoscere questo fatto, per vincere l’indifferenza e conquistare la pace.
Alcune forme di indifferenza
3. Certo è che l’atteggiamento dell’indifferente, di chi chiude il cuore per non prendere in considerazione gli altri, di chi chiude gli occhi per non vedere ciò che lo circonda o si scansa per non essere toccato dai problemi altrui, caratterizza una tipologia umana piuttosto diffusa e presente in ogni epoca della storia. Tuttavia, ai nostri giorni esso ha superato decisamente l’ambito individuale per assumere una dimensione globale e produrre il fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”.
La prima forma di indifferenza nella società umana è quella verso Dio, dalla quale scaturisce anche l’indifferenza verso il prossimo e verso il creato. È questo uno dei gravi effetti di un umanesimo falso e del materialismo pratico, combinati con un pensiero relativistico e nichilistico. L’uomo pensa di essere l’autore di sé stesso, della propria vita e della società; egli si sente autosufficiente e mira non solo a sostituirsi a Dio, ma a farne completamente a meno; di conseguenza, pensa di non dovere niente a nessuno, eccetto che a sé stesso, e pretende di avere solo diritti [4]. Contro questa autocomprensione erronea della persona, Benedetto XVI ricordava che né l’uomo né il suo sviluppo sono capaci di darsi da sé il proprio significato ultimo [5]; e prima di lui Paolo VI aveva affermato che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana» [6].
L’indifferenza nei confronti del prossimo assume diversi volti. C’è chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso. Purtroppo dobbiamo constatare che l’aumento delle informazioni, proprio del nostro tempo, non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale [7]. Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza la gravità dei problemi. «Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti» [8].
In altri casi, l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete [9]. «Quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… Allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene» [10].
Vivendo in una casa comune, non possiamo non interrogarci sul suo stato di salute, come ho cercato di fare nellaLaudato si’. L’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri, perché tutto è in relazione. Come anche il comportamento dell’uomo con gli animali influisce sulle sue relazioni con gli altri [11], per non parlare di chi si permette di fare altrove quello che non osa fare in casa propria[12].
In questi ed in altri casi, l’indifferenza provoca soprattutto chiusura e disimpegno, e così finisce per contribuire all’assenza di pace con Dio, con il prossimo e con il creato.
La pace minacciata dall’indifferenza globalizzata
4. L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e spirituale della singola persona ed investe la sfera pubblica e sociale. Come affermava Benedetto XVI, «esiste un’intima connessione tra la glorificazione di Dio e la pace degli uomini sulla terra» [13]. Infatti, «senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per la pace» [14]. L’oblio e la negazione di Dio, che inducono l’uomo a non riconoscere più alcuna norma al di sopra di sé e a prendere come norma soltanto sé stesso, hanno prodotto crudeltà e violenza senza misura [15].
A livello individuale e comunitario l’indifferenza verso il prossimo, figlia di quella verso Dio, assume l’aspetto dell’inerzia e del disimpegno, che alimentano il perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza.
In questo senso l’indifferenza, e il disimpegno che ne consegue, costituiscono una grave mancanza al dovere che ogni persona ha di contribuire, nella misura delle sue capacità e del ruolo che riveste nella società, al bene comune, in particolare alla pace, che è uno dei beni più preziosi dell’umanità [16].
Quando poi investe il livello istituzionale, l’indifferenza nei confronti dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e politiche che finiscono per costituire minacce alla pace. Tale atteggiamento di indifferenza può anche giungere a giustificare alcune politiche economiche deplorevoli, foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del proprio benessere o di quello della nazione. Non di rado, infatti, i progetti economici e politici degli uomini hanno come fine la conquista o il mantenimento del potere e delle ricchezze, anche a costo di calpestare i diritti e le esigenze fondamentali degli altri. Quando le popolazioni vedono negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza [17].
Inoltre, l’indifferenza nei confronti dell’ambiente naturale, favorendo la deforestazione, l’inquinamento e le catastrofi naturali che sradicano intere comunità dal loro ambiente di vita, costringendole alla precarietà e all’insicurezza, crea nuove povertà, nuove situazioni di ingiustizia dalle conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale. Quante guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse naturali [18]?
Dall’indifferenza alla misericordia: la conversione del cuore
5. Quando, un anno fa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Non più schiavi, ma fratelli”, evocavo la prima icona biblica della fraternità umana, quella di Caino e Abele (cfr Gen 4,1-16), era per attirare l’attenzione su come è stata tradita questa prima fraternità. Caino e Abele sono fratelli. Provengono entrambi dallo stesso grembo, sono uguali in dignità e creati ad immagine e somiglianza di Dio; ma la loro fraternità creaturale si rompe. «Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia» [19]. Il fratricidio allora diventa la forma del tradimento, e il rifiuto da parte di Caino della fraternità di Abele è la prima rottura nelle relazioni familiari di fraternità, solidarietà e rispetto reciproco.
Dio interviene, allora, per chiamare l’uomo alla responsabilità nei confronti del suo simile, proprio come fece quando Adamo ed Eva, i primi genitori, ruppero la comunione con il Creatore. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”» (Gen 4,9-10).
Caino dice di non sapere che cosa sia accaduto a suo fratello, dice di non essere il suo guardiano. Non si sente responsabile della sua vita, della sua sorte. Non si sente coinvolto. È indifferente verso suo fratello, nonostante essi siano legati dall’origine comune. Che tristezza! Che dramma fraterno, familiare, umano! Questa è la prima manifestazione dell’indifferenza tra fratelli. Dio, invece, non è indifferente: il sangue di Abele ha grande valore ai suoi occhi e chiede a Caino di renderne conto. Dio, dunque, si rivela, fin dagli inizi dell’umanità come Colui che si interessa alla sorte dell’uomo. Quando più tardi i figli di Israele si trovano nella schiavitù in Egitto, Dio interviene nuovamente. Dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7-8). È importante notare i verbi che descrivono l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è indifferente. È attento e opera.
Allo stesso modo, nel suo Figlio Gesù, Dio è sceso fra gli uomini, si è incarnato e si è mostrato solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si identificava con l’umanità: «il primogenito tra molti fratelli» (Rm8,29). Egli non si accontentava di insegnare alle folle, ma si preoccupava di loro, specialmente quando le vedeva affamate (cfr Mc 6,34-44) o disoccupate (cfr Mt 20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte.
Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre (cfr Lc 6,36). Nella parabola del buon samaritano (cfr Lc10,29-37) denuncia l’omissione di aiuto dinanzi all’urgente necessità dei propri simili: «lo vide e passò oltre» (cfr Lc10,31.32). Nello stesso tempo, mediante questo esempio, Egli invita i suoi uditori, e in particolare i suoi discepoli, ad imparare a fermarsi davanti alle sofferenze di questo mondo per alleviarle, alle ferite degli altri per curarle, con i mezzi di cui si dispone, a partire dal proprio tempo, malgrado le tante occupazioni. L’indifferenza, infatti, cerca spesso pretesti: nell’osservanza dei precetti rituali, nella quantità di cose che bisogna fare, negli antagonismi che ci tengono lontani gli uni dagli altri, nei pregiudizi di ogni genere che ci impediscono di farci prossimo.
La misericordia è il cuore di Dio. Perciò dev’essere anche il cuore di tutti coloro che si riconoscono membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli; un cuore che batte forte dovunque la dignità umana – riflesso del volto di Dio nelle sue creature – sia in gioco. Gesù ci avverte: l’amore per gli altri – gli stranieri, i malati, i prigionieri, i senza fissa dimora, perfino i nemici – è l’unità di misura di Dio per giudicare le nostre azioni. Da ciò dipende il nostro destino eterno. Non c’è da stupirsi che l’apostolo Paolo inviti i cristiani di Roma a gioire con coloro che gioiscono e a piangere con coloro che piangono (cfr Rm 12,15), o che raccomandi a quelli di Corinto di organizzare collette in segno di solidarietà con i membri sofferenti della Chiesa (cfr 1 Cor 16,2-3). E san Giovanni scrive: «Se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui?» (1 Gv3,17; cfr Gc 2,15-16).
Ecco perché «è determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia» [20].
Così, anche noi siamo chiamati a fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento nelle nostre relazioni gli uni con gli altri [21]. Ciò richiede la conversione del cuore: che cioè la grazia di Dio trasformi il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr Ez 36,26), capace di aprirsi agli altri con autentica solidarietà. Questa, infatti, è molto più che un «sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane» [22]. La solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» [23], perché la compassione scaturisce dalla fraternità.
Così compresa, la solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’innegabile inter-dipendenza che sempre più esiste, specialmente in un mondo globalizzato, tra la vita del singolo e della sua comunità in un determinato luogo e quella di altri uomini e donne nel resto del mondo [24].
Promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per vincere l’indifferenza
6. La solidarietà come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo.
Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate ad una missione educativa primaria ed imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli [25].
Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Rivolgendosi ai responsabili delle istituzioni che hanno compiti educativi, Benedetto XVI affermava: «Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna» [26].
Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso. E’ loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di interessi particolari. I mezzi di comunicazione, infatti, «non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene, infatti, per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o negativamente, sulla formazione della persona» [27]. Gli operatori culturali e dei media dovrebbero anche vigilare affinché il modo in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e moralmente lecito.
La pace: frutto di una cultura di solidarietà, misericordia e compassione
7. Consapevoli della minaccia di una globalizzazione dell’indifferenza, non possiamo non riconoscere che, nello scenario sopra descritto, si inseriscono anche numerose iniziative ed azioni positive che testimoniano la compassione, la misericordia e la solidarietà di cui l’uomo è capace. Vorrei ricordare alcuni esempi di impegno lodevole, che dimostrano come ciascuno possa vincere l’indifferenza quando sceglie di non distogliere lo sguardo dal suo prossimo, e che costituiscono buone pratiche nel cammino verso una società più umana.
Ci sono tante organizzazioni non governative e gruppi caritativi, all’interno della Chiesa e fuori di essa, i cui membri, in occasione di epidemie, calamità o conflitti armati, affrontano fatiche e pericoli per curare i feriti e gli ammalati e per seppellire i defunti. Accanto ad essi, vorrei menzionare le persone e le associazioni che portano soccorso ai migranti che attraversano deserti e solcano mari alla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste azioni sono opere di misericordia corporale e spirituale, sulle quali saremo giudicati al termine della nostra vita.
Il mio pensiero va anche ai giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica sulle situazioni difficili che interpellano le coscienze, e a coloro che si impegnano per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze etniche e religiose, dei popoli indigeni, delle donne e dei bambini, e di tutti coloro che vivono in condizioni di maggiore vulnerabilità. Tra loro ci sono anche tanti sacerdoti e missionari che, come buoni pastori, restano accanto ai loro fedeli e li sostengono nonostante i pericoli e i disagi, in particolare durante i conflitti armati.
Quante famiglie, poi, in mezzo a tante difficoltà lavorative e sociali, si impegnano concretamente per educare i loro figli “controcorrente”, a prezzo di tanti sacrifici, ai valori della solidarietà, della compassione e della fraternità! Quante famiglie aprono i loro cuori e le loro case a chi è nel bisogno, come ai rifugiati e ai migranti! Voglio ringraziare in modo particolare tutte le persone, le famiglie, le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari, che hanno risposto prontamente al mio appello ad accogliere una famiglia di rifugiati [28].
Infine, vorrei menzionare i giovani che si uniscono per realizzare progetti di solidarietà, e tutti coloro che aprono le loro mani per aiutare il prossimo bisognoso nelle proprie città, nel proprio Paese o in altre regioni del mondo. Voglio ringraziare e incoraggiare tutti coloro che si impegnano in azioni di questo genere, anche se non vengono pubblicizzate: la loro fame e sete di giustizia sarà saziata, la loro misericordia farà loro trovare misericordia e, in quanto operatori di pace, saranno chiamati figli di Dio (cfr Mt 5,6-9).
La pace nel segno del Giubileo della Misericordia
8. Nello spirito del Giubileo della Misericordia, ciascuno è chiamato a riconoscere come l’indifferenza si manifesta nella propria vita e ad adottare un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive, a partire dalla propria famiglia, dal vicinato o dall’ambiente di lavoro.
Anche gli Stati sono chiamati a gesti concreti, ad atti di coraggio nei confronti delle persone più fragili delle loro società, come i prigionieri, i migranti, i disoccupati e i malati.
Per quanto concerne i detenuti, in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio [29], avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia.
Per quanto riguarda i migranti, vorrei rivolgere un invito a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità.
Desidero, inoltre, in quest’Anno giubilare, formulare un pressante appello ai responsabili degli Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle che soffrono per la mancanza di lavoro, terra e tetto. Penso alla creazione di posti di lavoro dignitoso per contrastare la piaga sociale della disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società. La mancanza di lavoro intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle loro famiglie. Un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata alle donne – purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo – e ad alcune categorie di lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale.
Infine, vorrei invitare a compiere azioni efficaci per migliorare le condizioni di vita dei malati, garantendo a tutti l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per la vita, compresa la possibilità di cure domiciliari.
Volgendo lo sguardo al di là dei propri confini, i responsabili degli Stati sono anche chiamati a rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni.
In questa prospettiva, desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche – e per lungo tempo – l’integrità morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita.
Affido queste riflessioni, insieme con i migliori auspici per il nuovo anno, all’intercessione di Maria Santissima, Madre premurosa per i bisogni dell’umanità, affinché ci ottenga dal suo Figlio Gesù, Principe della Pace, l’esaudimento delle nostre suppliche e la benedizione del nostro impegno quotidiano per un mondo fraterno e solidale.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2015
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia
FRANCISCUS
Abbiamo aggiornato il sito del nostro Santuario, esso sarà la pagina che ci terrà in contatto per vivere insieme, anche se da lontano, gli eventi e le varie ricorrenze che nel nostro Santuario dell'Annunziata verranno celebrate.
Partiamo con la Festa della Santa Famiglia di Nazareth che proprio il 27-Dicembre ricorre. Il Presepe Vivente, che da diversi anni siamo stati soliti realizzare, ci da l'opportunità di entrare dentro il mistero di questo intreccio tra il divino e l'umano che la famiglia di Nazareth ha vissuto.
Inizieremo con la Santa Messa, celebrata nel nostro Santuario alle ore 18,00, e a seguire ci sarà la visita.
Giorno 31-Dicembre alle ore 17,30, sempre nel Santuario, si celebrerà il Te Deum... di ringraziamento.
Mi permetto di fare con voi una piccola riflessione sul brano del Vangelo di Luca della Festa della Santa Famiglia:
Dal Vangelo secondo Luca (2,41-52)
I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Una vita incentrata nella fede
Il brano evangelico offerto per la festa odierna è preso – non poteva essere altrimenti! – dai primi capitoli del Vangelo secondo Luca. In essi l’Autore presenta a sprazzi gli eventi che seguono la nascita di Gesù, quasi come dei fasci di luce che illuminano il buio del mistero del Dio fatto uomo. Dopo il racconto dei pastori, chiamati dal chiarore di un angelo a raggiungere Betlemme (cf. Lc 2,8-20), pochi accenni sono dedicati alla circoncisione e all’imposizione del nome del Primogenito dei santi Sposi (cf. Lc 2,21), a cui fa seguito la presentazione al tempio, con l’incontro di Simeone ed Anna (cf. Lc 2,22-40). L’ultimo quadro dei Vangeli dell’infanzia è dedicato a Gesù nel tempio di Gerusalemme tra i dottori. Si capisce allora perché si tratti di una narrazione a sprazzi. All’Evangelista non interessa una cronaca precisa di quanto è accaduto nei primi anni della vita nascosta del Figlio di Dio, quanto invece mostrare la dinamica interna degli eventi che rappresentano poi il compimento delle promesse antiche.
Nel brano odierno, Gesù ha dodici anni ed i suoi genitori vengono presentati, come in precedenza Zaccaria ed Elisabetta (cf. Lc 1,6), pii ed osservanti delle tradizioni d’Israele, frequentatori del tempio di Gerusalemme ogni anno, per la festa di Pasqua. Il versetto 41, infatti, oltre ad introdurre la narrazione di quanto accade nella città santa, dona, al tempo stesso, lo spaccato di fede della Famiglia di Nazaret. Maria e Giuseppe vivono profondamente innestati nel credo del popolo eletto e le sue usanze scandiscono il ritmo della loro vita familiare. Lo stesso Gesù viene educato nell’osservanza della legge di Mosè che Egli dimostrerà di conoscere nella sua predicazione – pur non fermandosi ad essa, ma svelandone il compimento nella sua Persona – in totale solidarietà con il popolo palestinese dal quale Egli viene secondo la carne. È un dato imprescindibile: educare significa donare all’altro ciò che si crede e quanto si vive ed è questo che i genitori di Gesù fanno. Rispettano le leggi romane – si pensi al censimento, cf. Lc 2,4 – ma, allo stesso tempo, fanno della fede ebraica il nerbo della loro relazione familiare, delle scelte e dei tempi del loro vivere. Dio non è marginale, ma rappresenta il cuore della famiglia di Nazaret, la divina volontà, la meta a cui giungere con l’offerta della propria docilità. Gesù viene condotto a conoscere Dio come Padre, nella dimensione umana assunta nel grembo della Vergine Madre, da due colossi di docilità, quali i suoi Genitori sono. Il Fanciullo respira in casa il profumo del Fiat di Maria sua Madre, ascolta il suo silenzio, contempla il serbare nel cuore suo la parole del Signore, guarda gli occhi della Madre che lo scrutano e lo ammirano, il suo stupore nel vedere che proprio a lei, tra tutte le donne, era stata data in sorte, la grazia di condividere con Dio il suo Figlio unigenito. Gesù ha potuto riconoscere nel legno lavorato dalle mani del suo Giuseppe la vita del suo padre legale, lavorato dallo Spirito, plasmata dalla sua mano, piegata alla volontà dal divino Cesellatore.
Parole e fatti intimamente connessi sono il segreto di una vera educazione dei figli nella vita sociale e relazionale, nella fede e nell’assumere le responsabilità della vita. Educare non significa solo tirar fuori ciò che è già presente come possibilità nel cuore dei giovani, ma è da riferirsi anche ai genitori chiamati a tirar fuori da sé il meglio perché i figli vedano la coerenza tra le parole dette ed offerte ed i fatti vissuti con determinazione ed impegno. Tirare fuori è un arte per i figli come anche per i genitori, ma è da considerare un’arte anche quella di vivificare le tradizioni e le usanze familiari nel naturale cammino di crescita dei figli. È necessario, infatti, avere dei punti fermi nella vita di famiglia, dei pellegrinaggi annali, delle tappe obbligatorie, dei momenti di verifica e di confronto in coppia e con i figli perché il tempo non passi senza lasciare dei segni vivi nella nostra esistenza. Il passato non va subito con le sue tradizioni ed usanze – quando questo accade prima o poi si rischia di considerarle insignificanti e quindi prive di un reale incidenza nella vita – ma è necessario vivificare il passato e rimotivare le scelte, soprattutto di fede. Possono cambiare le forme della nostra fede, le modalità della nostra vita, le dinamiche dei nostri rapporti, ma non bisogna mai mettere in discussione le fondamenta della vita familiare e tra queste la presenza e l’azioni di Dio. Maria e Giuseppe vivono nella fedeltà e nella costanza – ogni anno, v. 41 – della propria scelta di fede e Gesù nasce e cresce in un ambiente sano dove la parola di Dio è accolta in obbedienza, vissuta con radicalità, testimoniata con coraggio.
O Famiglia di Nazaret, dona alle nostre case il profumo di Dio, la gioia dello scegliere sempre e solo la sua volontà, la corsa nell’ascoltare la sua voce, la costanza della fedeltà alla promessa liberamente offerta ed accolta con la grazia di Cristo. I genitori educhino i figli all’amore testimoniandone la bellezza, svelino la radicalità della scelta di fede attraverso il silenzio ed il sacrificio, chiedano impegno e costanza nell’aprirsi ai fratelli con una vita che grida il primato dell’assoluto. I piccoli crescano in età, la grazia li protegga, la sapienza sovrabbondi nei cuori. Regnino nelle nostre famiglie le stesse virtù della Famiglia di Nazaret: si cerchi Dio nel silenzio, lo si invochi nella prova, lo si ascolti sempre, si viva in Lui innestati come i tralci alla vite per fare frutti abbondanti nella vigna sua che è la Chiesa.
Non si è perfetti, anche l’errore è da mettere in conto
Un particolare che resta un mistero è la mancanza del Fanciullo nella carovana del ritorno. Anche qui l’Evangelista non ci offre indicazioni particolari, per cui tentare delle motivazioni appare non solo azzardato, ma anche inopportuno. Il dato è comunque inequivocabile: Gesù resta a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano. È risaputa l’usanza secondo cui i ragazzi godevano di una cera libertà di movimenti nella carovana, ma questo non toglie che il Figlio di Maria e Giuseppe non si trova nella sosta serale. Sgomento, panico, vergogna? Anche qui il testo evangelico tace e risulta inutile ogni supposizione. Può apparire strano, ma perdere Gesù può capitare anche a noi. L’errore – diverso dal peccato – fa parte della vita, anzi rappresenta la strada maestra della sapienza, perché la vita ci ammaestra attraverso l’impervia via degli sbagli. Sbagliando si impara, recita un antico adagio, ma come appare per noi difficile imparare dagli errori! Gesù lo si può perdere per una svista, una distrazione, lo si perde tra i pensieri quando la mente è affollata da mille cose oppure lo si confonde tra gli impegni della giornata quando la preghiera è un’attività tra le tante, non quella che dona senso alle altre. Si perde Gesù– san Luca non parla di smarrimento, è una dicitura che è stata da noi applicata a questa pagina evangelica, soprattutto nell’enunciazione del quarto mistero della gioia! – ma sarebbe meglio dire che il Signore non è dove l’uomo lo cerca. I Magi cercano il re dei re a Gerusalemme ed Egli è a Betlemme, i discepoli cercano Gesù tra la folla ed Egli è sul monte. Dio non abita dove la nostra mente ed il nostro cuore lo crede presente perché Egli ha il suo progetto, persegue i suoi disegni, spessissimo diversi dai nostri. Maria e Giuseppe vedono che il Bambino è andato lontano da loro e si mettono alla ricerca.
È vero, siamo abituati a vedere che i figli seguono i genitori, ma a ben pensarci, già da quando i piccoli iniziamo a camminare, sono essi, pur se guidati, a scegliere il percorso da fare e chi li conduce, spesso deve fare non poca fatica per farli desistere da un cammino intrapreso. Giuseppe e Maria seguono il loro figlio, lo ricercano e si mettono in discussione per ricomprendere il piano di Dio su di Lui. Non è lo smarrimento di Gesù che avviene, ma lo smarrimento del cuore dei santi Sposi nel vedere che Dio ha categorie diverse, strade differenti, pensieri talvolta opposti dai loro. I figli sono un mistero da custodire e da scoprire. Con essi si ricerca il progetto del Padre, facendo morire il proprio. Quante volte sui figli, già nei primi anni della crescita, si carica il peso delle proprie aspettative o si chiede, ancor peggio, si impone, con quella sottile libertà che è poi inesistente, di realizzare i progetti che i genitori non sono riusciti a concretizzare. Così ai figli si chiede non di vivere la propria vita, tantomeno di perseguire i propri desideri, né il progetto di Dio, ma di far vivere in se stessi, sogni, desideri, responsabilità che sono poi assurde. Essere buoni genitori significa condurre per mano i figli a tirar fuori i sogni reconditi, che raramente sono cose semplici, più spesso, invece, comportano impegno e responsabilità maggiori. Non dobbiamo tarpare le ali ai sogni dei nostri figli, ma imparare a sognare con loro, a desiderare il loro vero bene, guidandoli perché essi, prendendo il volo. Un educatore è colui che mette in guardia, ma che sa anche accogliere i fallimenti e le strade invano battute, senza calcare la mano nell’errore, né profondersi in lodi per i successi.
Maria e Giuseppe devono superare lo smarrimento che Gesù non è come essi lo pensano, perché Egli vive il rapporto con Dio, la fede tradizionale dei padri in forme nuove che non sovvertono la legge, ma vanno al suo cuore. La Vergine ed il suo Sposo devono capire – è questo un esercizio che i genitori sono continuamente chiamati a fare! – che i propri figli non solo crescono, ma pensano, amano, sognano. Non possiamo crederli sempre piccoli e bisognosi di balie, ma è necessario vedere le tappe della loro crescita, senza la paura che, vedendo crescere loro, noi diveniamo più vecchi. Maria è Giuseppe vivono la sfida del progresso del loro Fanciullo ed imparano, nei giorni trascorsi a ricercarlo, che Gesù non è il figlio che credevano e pensavano di avere. Se i genitori capissero che i figli sono un mistero da custodire ed amare, ma pur sempre un mistero! Quando credi di conoscerlo – lo stesso capita anche tra sposi – in realtà egli è già cambiato perché le esperienze continue della vita determinano la sua crescita, motivano la sua trasformazione nella mente e nel cuore.
Bello è poi vedere che Maria e Giuseppe nella difficoltà non litigano, non cercano di capire su chi debba cadere la colpa di quello che è accaduto, ma che è necessario rimboccarsi le maniche. Non sempre serve capire le cose come stanno andando, perché in questo modo siamo rivolti con lo sguardo al passato. È, invece, necessario, talvolta, essere pratici e, al pari dei Genitori del Signore, darsi da fare e mettersi in ricerca senza perdere tempo. La ricerca del vero bene è l’arte che i genitori e gli educatori devono conoscere al meglio. Ricercare significa non fermarsi mai, non darsi mai tregua, ma perseguire, con impegno, costanza, determinazione, il bene, anche quando si è stanchi, gli occhi si chiudono ed il cuore si rifiuta di continuare nella corsa, nei battiti dell’amore. Non fermarsi mai nella ricerca è il farmaco perché la circolarità dell’amore investa la nostra vita ed accenda in noi il desiderio di continuare la corsa del dono.
Donaci, o Maria, la gioia di non considerarci padroni della vita dei nostri figli, ma collaboratori della loro gioia. Donaci, Giuseppe, la tua costanza nella ricerca, il tuo coraggio nel silenzio, la capacità di mai accusarci, perdendo il tempo che potremmo utilizzare nella ricerca sincera del bene smarrito. Accendete in noi, o santi Sposi, il desiderio di vedere felici i nostri figli nel realizzare i sogni che Dio ha messo nei loro cuori e fateci gioire delle loro gioie, pronti a soccorrerli nelle difficoltà. Le liti, le grida per attribuire colpe e meriti non scandiscano la nostra vita familiare, ma la ricerca sincera del bene sia frutto del discernimento chiesto al Padre nella preghiera e d ottenuto per l’effusione dello Spirito di Cristo che abita in noi.